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Vita da disabili

Andrea sorride e mi consegna il biglietto con il numero di prenotazione, osservandomi da dietro le lenti leggermente oscurate dei suoi Rayban. Da quando sono amministratore di condominio l’ho sempre visto lì al suo posto, seduto su un trespolo all’interno dell’Ufficio Postale di Via Petrocelli, in un piccolo centro commerciale come ce ne sono tanti altri a Roma. Aiuta gli utenti indecisi dispensando consigli, sorrisi e biglietti con il numero stampato in nero. Ormai lo vedo spesso, ma tutte le volte mi stupisco nel rilevare che l’espressione del suo viso, la gentilezza nei modi, la disponibilità e la pazienza, sono sempre gli stessi, immutabili nel tempo. Al suo fianco, appoggiata alla spalliera, c’è la sua inseparabile stampella. Ogni tanto gli lancia un’occhiata furtiva, come per sincerarsi che sia ancora al suo posto; un’indispensabile e fedele compagna di vita di cui non può più fare a meno. Ma ci sono stati tempi in cui Andrea non sapeva neanche cosa farsene di una stampella, perché la disabilità lo accompagna da non più di vent’anni, dal giorno in cui fu coinvolto in un grave incidente, qualcosa che può accadere a chiunque. E’ stato quando gli ho consegnato un mio biglietto da visita che mi ha raccontato la sua difficoltà a relazionarsi con la città, ma soprattutto mi ha fatto capire quanto la sua condizione, ma soprattutto la condizione di coloro che sono meno fortunati di lui, sia diventata completa indifferenza per chi la disabilità non la vive quotidianamente: scalinate insormontabili; marciapiedi sprovvisti di scivolo; bagni angusti dove a volte è difficile entrare anche per una persona pienamente abile; locali commerciali del tutto inaccessibili per chi è costretto su una sedia a rotelle. Inutile dire che Andrea ha ragione da vendere. Il mondo “civile” tende a dimenticare che esistono anche persone come lui, che hanno il diritto come tutti di usufruire dei servizi di una città come Roma o di una qualunque altra località del mondo. Il nostro incontro mi ha fatto riflettere molto, e la sua conoscenza della materia, oltre all’impegno profuso per ottenere dalle istituzioni una maggiore attenzione a tutela dei disabili, mi ha spinto ad informarmi e a studiare la normativa.

La Legge n. 13 del 9 gennaio 1989, contenente le “disposizioni per favorire il superamento e l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati”, rappresenta il primo passo verso una riconciliazione tra il mondo dei disabili e quello degli “altri”, ma nel leggere attentamente gli articoli si nota subito che qualcosa non quadra. All’articolo 1 comma 4 è specificato che un professionista abilitato deve allegare al progetto di ristrutturazione o di nuova costruzione di un edificio pubblico o privato, una dichiarazione di conformità alle disposizioni riportate nella legge stessa. Si parla di precisi obblighi in tema di accessibilità, visitabilità o adattabilità delle strutture edificate, pubbliche o private, non rispettando i quali il progetto non può essere approvato. E’ addirittura prevista la creazione di un’apposita commissione comunale, composta da tecnici esperti in grado di valutare se le soluzioni architettoniche presentate possano o meno consentire ad un disabile di usufruire di un agevole percorso di ingresso e di una comoda fruizione degli spazi interni. A giudicare da buona parte degli edifici che ci circondano, pubblici e privati, pare che l’intento della legge sia stato del tutto disatteso e che nel silenzio degli interessati (i disabili), o a seguito delle loro “timide” proteste, nulla si muova.

Come previsto dalla Legge n. 13, il 14 giugno 1989 viene alla luce il D.M. n. 236 contenente “le prescrizioni tecniche necessarie per garantire l’accessibilità, la visitabilità e l’adattabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica al fine del superamento e dell’eliminazione delle barriere architettoniche”. Gli articoli sono costituiti da una sequenza interminabile di indicazioni tecniche molto ben circostanziate che, inutile dirlo, nella maggior parte dei casi non vengono applicate, con il risultato che per i disabili le difficoltà aumentano. La normativa impone anche la presentazione di un’autocertificazione postuma con cui il Direttore dei Lavori (e cioè un professionista abilitato come il geometra, l’architetto o l’ingegnere) dichiara sotto la propria responsabilità che l’edificio è stato costruito/ristrutturato rispettando la normativa in tema di abbattimento delle barriere architettoniche. Giova ricordare che oggi, secondo quanto disposto dall’art. 76 del DPR n. 445 del 28/12/2000, qualsiasi dichiarazione mendace in atti amministrativi comporta ripercussioni penali e risvolti civilistici ed economici di notevole entità. Ebbene, dal 1989 quanti edifici sono stati costruiti? Parliamo di quasi trent’anni di edilizia civile, non di bruscolini. E’ possibile affermare che qualsiasi fabbricato edificato in questo lungo lasso di tempo rispetti pienamente la normativa vigente? Nulla di più falso.

Il D.M. 236 è richiamato anche dal D.P.R. (Decreto del Presidente della Repubblica!) n. 503 del 24 luglio 1996 “recante le norme per l’eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici”. Basta addentrarsi nella lettura degli articoli per accorgersi che buona parte delle disposizioni contenute sono di nuovo completamente inapplicate; ma se questo può non essere un problema per le persone normodotate, certamente è una grave limitazione alla libertà di movimento dei disabili più gravi. Orbene, se anche le istituzioni pongono ostacoli insormontabili al diritto di muoversi di un disabile, disattendendo i necessari controlli e le conseguenti sanzioni, certamente la direzione che si è presa non è quella corretta ed è necessario alzare la voce.

Anche la nuova riforma del condominio negli edifici, la L. 220/2012 entrata in vigore il 18 giugno 2013, non sfugge al “buonismo” di facciata del legislatore, tanto che l’art. 1120cc, in tema di innovazioni, dispone quorum “agevolati” per le delibere assembleari che abbiano per oggetto l’eliminazione delle barriere architettoniche. Si parla di quorum agevolati, ovvero quelli del secondo comma dell’art. 1136cc, perché precedentemente alla riforma le maggioranze deliberative erano addirittura maggiori (quinto comma dell’art. 1136cc), ma il legislatore avrebbe dovuto abbassarle ulteriormente, equiparandole alle delibere di natura ordinaria, ovvero approvate in seconda convocazione con il voto favorevole della maggioranza degli intervenuti in assemblea e un terzo dei millesimi dell’edificio. La legge non prevede neppure l’assegnazione obbligatoria di posti auto riservati ai disabili gravi all’interno delle aree condominiali, lasciando all’assemblea il compito di decidere nel merito, con risultati piuttosto scontati.

E’ vero che ci troviamo ancora in un periodo di profonda crisi economica che vede innalzarsi pericolosamente la percentuale di morosità tra i condòmini, ma se a questo sommiamo il “menefreghismo collettivo” di coloro che non sono toccati direttamente dal problema della disabilità, ecco che l’approvazione di una spesa per l’installazione di un ascensore, un servoscala o semplicemente di uno scivolo, diventano un ulteriore ostacolo alle belle parole che sottintendono alla frase: “abbattimento delle barriere architettoniche”. Al disabile che si vede respingere dall’assemblea la proposta di agevolare la sua mobilità all’interno del condominio non rimane che mettere mano al portafoglio e provvedere autonomamente, in virtù dell’art. 1102cc che gli consente di modificare le parti comuni salvo che non si crei un grave pregiudizio agli altri condòmini … ma al grave pregiudizio dei disabili chi ci pensa?

Noi amministratori nel nostro piccolo possiamo fare ben poco per migliorare una situazione gravemente deficitaria, ma certamente possiamo sensibilizzare la categoria, la nostra amata ANACI, e ove possibile le istituzioni, affinché in occasione dei lavori di ristrutturazione degli edifici amministrati si tenga ben presente che esiste una minoranza di persone che necessita di essere considerata e che con piccoli ma indispensabili interventi potrebbero essere aiutati a sentirsi parte integrante di una comunità civile.

In attesa che si presti finalmente un po’ più di attenzione alle istanze delle minoranze deboli della nostra società facendo semplicemente rispettare la legge, Andrea continuerà a dispensare sorrisi e ad aiutare la gente, la stessa che in assemblea probabilmente non lo ricambierebbe con la stessa moneta.

I limiti della delega in condominio

(di seguito il testo di un articolo a firma Stefano Boldrini apparso in “Dossier Condominio” MAGGIO-GIUGNO n. 165 di ANACI)

In condominio l’istituto della delega consente ai condòmini, impossibilitati a partecipare all’assemblea, di nominare un rappresentante di fiducia cui demandare il loro diritto di voto. Le regole per poter esercitare questa importante facoltà di espressione per procura sono poche ed ormai assodate, ma dietro ad un semplice pezzo di carta possono nascondersi insidie del tutto inaspettate. Nella novellata riforma, la L. 220/2012 entrata in vigore il 18 giugno 2013, il primo comma dell’art. 67 dacc dedica poche righe all’argomento, peraltro generiche, che possono dar luogo ad interpretazioni estensive su cui è bene fare qualche riflessione.

“Ogni condomino può intervenire all’assemblea anche a mezzo di rappresentante, munito di delega scritta. Se i condomini sono più di venti, il delegato non può rappresentare più di un quinto dei condomini e del valore proporzionale”

L’unico requisito che la norma dispone in modo chiaro ed inequivocabile è la forma scritta, ma nella realtà è necessario che la delega contenga altri elementi essenziali, senza i quali sarebbe impossibile validarla: innanzitutto un chiaro riferimento di chi sia il condòmino delegante, con il calce la propria firma in originale, ma anche l’indicazione del nome e cognome del delegato, sia esso condòmino o terzo. Un ultimo elemento imprescindibile è il riferimento all’assemblea cui la delega si riferisce, con la precisazione perlomeno della data di svolgimento, sia di prima che di seconda convocazione. Soltanto una delega compilata in modo siffatto contiene le informazioni basilari che consentono al Presidente di accettarla, attribuendo al delegato intervenuto in assemblea il diritto di voto in vece del condòmino delegante.

La questione però non è del tutto risolta, perché il delegato potrebbe essere sconosciuto ai partecipanti all’assemblea, ponendo quindi la necessità di verificarne le generalità. Può il Presidente chiedere al delegato l’esibizione di un documento? E se non ne avesse alcuno? Lo scenario si complica e non poco, perché impedire l’espressione del voto all’avente diritto può comportare, ex art. 1137 cc,  l’annullabilità di qualsiasi delibera assembleare assunta, con evidenti ripercussioni negative sul condominio stesso. Ebbene l’esibizione di un documento di riconoscimento è del tutto facoltativa e non può essere imposta, tanto che il Presidente, in caso di rifiuto, potrebbe effettivamente impedire l’espressione del voto al delegato, avendo l’accortezza di indicare nel verbale una breve descrizione delle motivazioni che lo hanno portato a prendere questa decisione, a futura memoria. Del resto il riconoscimento del delegato è indispensabile perché una delega non può essere oggetto di ulteriore delega, lo dispone in modo del tutto analogico lo stesso art. 67 dacc.

Un altro scenario interessante si apre con il seguente quesito: il condòmino delegante, proprietario di più unità immobiliari nello stesso condominio, può delegare più rappresentanti, fino a nominarne uno per ogni singola unità immobiliare posseduta? E’ lo stesso art. 67 dacc a fornire la risposta a questa domanda del tutto inappropriata. Il condòmino in questione conta come “uno” e se desidera delegare qualcuno a rappresentarlo in assemblea non può scindere le sue proprietà, perché altrimenti aumenterebbe a proprio vantaggio il numero delle “teste” ovvero uno dei quorum deliberativi che devono essere raggiunti per approvare una delibera.

La seconda parte del primo comma dell’art. 67 dacc introduce un ulteriore elemento di analisi che merita particolare attenzione. Leggendo quanto in esso riportato si desume che il legislatore abbia voluto limitare, per quanto possibile, l’eccessivo potere di rappresentanza in assemblea; dispone infatti che in presenza di oltre venti condòmini (non unità immobiliari) il delegato non possa rappresentare più di un quinto dei condòmini e del valore proporzionale. Vale la pena ricordare che la norma in esame, per effetto di quanto disposto dall’art. 72 dacc, è inderogabile e che pertanto neanche un regolamento di condominio può disporre diversamente, salvo che non “restringa” ulteriormente il numero delle deleghe, richiamando di fatto i condòmini ad una maggiore responsabilità e partecipazione alla vita condominiale. Tuttavia l’aspetto più dibattuto e interessante su cui riflettere è il significato della congiunzione “e” che parrebbe accomunare il raggiungimento delle due soglie citate, ovvero il numero di condòmini e il valore dei millesimi. La norma pone un limite al numero di deleghe che oltrepassi contemporaneamente entrambi i valori, oppure anche al raggiungimento di uno solo dei due? Se cerchiamo altri esempi che possano chiarire le intenzioni del legislatore, il comma 2 dell’art. 1136 cc ce ne offre uno del tutto analogo: “sono valide le deliberazioni approvate con un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti “e” almeno la metà del valore dell’edificio. Ne consegue che il limite è posto al raggiungimento contemporaneo di entrambi i valori citati. D’altronde non potrebbe essere altrimenti. Se un condòmino di un edificio con oltre venti condòmini possedesse più di 200 millesimi non potrebbe mai delegare nessuno a rappresentarlo in assemblea, il che rappresenterebbe una seria limitazione all’espressione di voto in assemblea.

Riparazione tetto o lastrico solare … chi paga?

La ripartizione delle spese per il rifacimento del lastrico solare o del tetto di un edificio condominiale è spesso oggetto di accese discussioni tra i condòmini. A chi spettano le spese?

L’art. 1117 cc indica che il tetto è una parte comune se non risulta il contrario dal titolo (Regolamento di Condominio o rogito). Ciò significa che tutti devono partecipare alla spesa per un eventuale rifacimento. Il tetto è fondamentale per preservare l’edificio dagli agenti atmosferici e chiunque ne sia coperto a qualsiasi livello sottostante (cantine, box) deve concorrere alla sua manutenzione. Vale in ogni caso quanto disposto dall’art. 1123 cc comma 3, ovvero:

“Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinati a servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità.”

La ripartizione della spesa avverrà quindi utilizzando la tabella di proprietà con l’esclusione di coloro che rientrano nel disposto del comma appena riportato.

Per quanto riguarda i lastrici solari occorre fare una distinzione. Se la copertura, che ha differenza del tetto a falde è orizzontale e opzionalmente calpestabile, è condominiale, la spesa deve essere ripartita come per il tetto tra tutti i condòmini.

Se invece il lastrico solare o il terrazzo a livello è ad uso esclusivo, interviene l’art. 1126 cc che recita:

“Quando l’uso dei lastrici solari o di una parte di essi non è comune a tutti i condomini, quelli che ne hanno l’uso esclusivo sono tenuti a contribuire per un terzo nella spesa delle riparazioni o ricostruzioni del lastrico: gli altri due terzi sono a carico di tutti i condomini dell’edificio o della parte di questo a cui il lastrico solare serve, in proporzione del valore del piano o della porzione di piano di ciascuno.”

La ripartizione della spesa rientrante nei 2/3 dovrà quindi coinvolgere tutte le unità immobiliari sottostanti, coperte anche solo parzialmente dal lastrico, fino al livello più basso (cantine e box) escludendo naturalmente le parti comuni (androne, corselli, rampe, ecc). La tabella utilizzata dovrà essere quella di proprietà.

Revoca mandato amministratore

I condòmini pensano erroneamente che il mandato di amministratore di condominio possa essere revocato soltanto in occasione dell’assemblea annuale di approvazione dei bilanci, quando all’o.d.g. l’amministratore deve indicare un apposito punto che consenta ai suoi amministrati di confermare o revocare l’incarico e, se ne ricorrono i presupposti, nominare il nuovo amministratore. Non è così.

L’art. 1129 cc, che tra l’altro è inderogabile, recita:

La revoca dell’amministratore può essere deliberata in ogni tempo dall’assemblea, con la maggioranza prevista per la sua nomina

Ciò significa che i condòmini, in virtù di quanto disposto dall’art. 66 dacc possono chiedere all’amministratore in carica di convocare l’assemblea per revocargli l’incarico e in assenza di risposta entro 10 giorni, possono legittimamente autoconvocarsi e deliberare.

A nulla può valere la latitanza dell’amministratore perchè nel caso in cui non ottemperi all’obbligo di convocazione può essere revocato per gravi irregolarità, come previsto dall’art. 1129 cc comma 12 punto 1), prima passando da una delibera assembleare e poi, in mancanza di quorum, rivolgendosi ad un giudice.

Vale la pena ricordare che il condominio è dei condòmini. L’amministratore opera in virtù di un mandato assembleare che come tale può essere revocato sempre, a maggior ragione quando viene meno la fiducia.

Condominio e Supercondominio

Con l’introduzione della nuova riforma sul condominio negli edifici (L. 220/2012) entrata in vigore il 18 giugno 2013 il legislatore ha tentato di regolamentare l’istituto del “supercondominio”. L’art. 1117 bis dispone infatti:

Le disposizioni del presente capo si applicano, in quanto compatibili, in tutti i casi in cui più unità immobiliari o più edifici ovvero più condominii di unità immobiliari o di edifici abbiano parti comuni ai sensi dell’articolo 1117.

In verità già il terzo comma dell’art. 1123 cc disponeva in precedenza nel merito:

Qualora un edificio abbia più scale, cortili, lastrici solari, opere o impianti destinatia servire una parte dell’intero fabbricato, le spese relative alla loro manutenzione sono a carico del gruppo di condomini che ne trae utilità.

L’aggiunta dell’art. 1117 bis cc ha posto un interrogativo. In presenza di parti comuni a più edifici è necessaria la “creazione” di una gestione separata e quindi di un “supercondominio”?

A giudizio di chi scrive, il codice non riporta alcun obbligo di creazione ad hoc di un supercondominio, quanto l’imposizione di provvedere ad una corretta ripartizione delle spese tra i diversi soggetti coinvolti. Infatti l’intenzione del legislatore non è quella di aggravare i condòmini di spese, bensì di riconoscere l’esistenza di un “contenitore” esterno che includa le parti comuni a più condomini, se esistenti.

Chiariamo questo aspetto con un esempio.

Due fabbricati separati tra loro hanno in comune un’area cortiliva e l’accesso ai box. La gestione di una situazione simile può essere fatta seguendo due strade:

a) Un condominio per ognuno dei due fabbricati e un supercondominio per la gestione delle sole parti comuni a entrambi. Una soluzione di questo tipo necessita di tre gestioni contabili separate, quindi tre codici fiscali, tre conti correnti, tre amministratori, tre adempimenti fiscali diversi, ecc. Un evidente aggravio di spese, soltanto per “dividere” e ripartire correttamente le spese di ciascuno;

b) Un unico condominio con tabelle millesimali pensate e redatte per considerare tutte le possibili ripartizioni di spesa. una tabella di proprietà generale che possiamo chiamare di supercondominio con cui ripartire le spese comuni (amministrazione, manutenzione e servizi relativi all’area cortiliva e all’accesso ai box); una tabella di proprietà dei singoli fabbricati, per ripartire le spese inerenti a ciascuno di essi (pulizia scale, rifacimento tetti, lastrici, ecc.);

In entrambi i casi ciascun condòmino pagherà soltanto il dovuto, ma nel primo caso si troverà ad affrontare maggiori spese di gestione … e nessun vantaggio aggiuntivo.

 

Potere di spesa dell’amministratore

Contrariamente a quanto si pensa, l’amministratore non ha potere di spesa se non per quanto è stato deliberato dall’assemblea dei condòmini. L’unica eccezione è costituita dalle spese “urgenti” indicate nel secondo comma dell’art. 1135 cc:

L’amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che rivestano carattere urgente, ma in questo caso deve riferirne nella prima assemblea

Il testo della norma non fa riferimento alle spese ordinare che devono necessariamente passare al vaglio preventivo dell’assemblea, ma solo a quelle straordinarie urgenti. Ma cosa si intende per spese straordinarie urgenti?

Si tratta in sostanza delle spese necessarie per interventi compiuti in modo da evitare ulteriori danni a cose o, peggio, a persone. Del resto sull’amministratore grava costantemente il peso di quanto disposto dal secondo comma dell’art. 40 cp:

non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo

Un cornicione pericolante, una condotta d’acqua che improvvisamente si rompe, un parapetto di un terrazzo condominiale di altezza inferiore al minimo di legge, una pericolosa sconnessione della pavimentazione di un vialetto pedonale … sono solo alcuni  esempi per i quali è necessario intervenire tempestivamente e per i quali i tempi di convocazione assembleare potrebbero costituire una variabile troppo estesa per garantire l’incolumità altrui.

In questi casi l’intervento dell’amministratore è indispensabile, perchè il suo mandato lo investe della piena responsabilità di custodia delle parti comuni. Ma fino a dove può spingersi il suo margine di manovra? La risposta più corretta è: al minimo indispensabile per ottemperare ai suoi obblighi … nulla di più.

Tornando agli esempi precedenti basterebbe la spicconatura del cornicione, oppure un’imbragatura che impedisca la caduta rovinosa dei pezzi d’intonaco; limitarsi a riparare provvisoriamente il tubo per evitare ulteriori danni alle unità immobiliari e alle parti comuni; inibire l’ingresso di chiunque al terrazzo, chiudendo a chiave la porta di accesso e apponendo un cartello di pericolo; transennare la zona interessata dalla sconnessione impedendo che chiunque possa farsi del male cadendo.

Ogni altra opera di rimessa in pristino deve essere adeguatamente preventivata e deliberata in assemblea, l’unico organo titolato a decidere sulla questione.

Nullità e annullabilità delle delibere

Si dibatte spesso sulla nullità o annullabilità delle delibere soprattutto quando qualche condòmino si sente leso nei propri diritti. Occorre quindi fare chiarezza.

Cominciamo col dire che ai sensi dell’art. 1137 cc qualsiasi delibera assembleare può essere impugnata. Nella stragrande maggioranza dei casi i tempi massimi di impugnazione sono di 30 giorni, e più precisamente:
Per i presenti all’assemblea: 30 giorni dalla data di assemblea. L’impugnazione può essere fatta soltanto da chi abbia votato contro o si sia astenuto e sia coinvolto in prima persona dalle conseguenze della delibera stessa;
Per gli assenti: 30 giorni dal ricevimento del verbale d’assemblea (data certa). Ne consegue che se non lo ricevono, i tempi non decorrono mai.

Decorsi i termini appena descritti la delibera assembleare non può più essere impugnata e rimane efficace. Una delibera può infatti essere sospesa soltanto da un giudice perchè altrimenti mantiene la sua validità dal momento in cui viene assunta dall’assemblea. Se il giudice ravvisa gli estremi per annullare la delibera, gli effetti si ripercuotono solo su quella delibera, a meno che (per esempio a causa di vizi sulle modalità di convocazione) l’annullamento non coinvolga tutte le delibere di una determinata assemblea.

Esistono invero rarissimi casi in cui una delibera può essere radicalmente nulla, e come tale impugnabile “in ogni tempo e ad opera di chiunque ne abbia interesse” (e quindi anche dai presenti che abbiano votato favorevolmente alla delibera stessa). Sono casi piuttosto circoscritti ma possono essere causa di gravi ripercussioni, per esempio se in virtù di una delibera sono stati firmati dei contratti di appalto che, proprio per la nullità della delibera, perdono completamente valore.

E’ una Sentenza della Cassazione a Sezioni Unite (la n. 4806 del 7 marzo 2005) a indicare una netta linea di demarcazione in merito al concetto di nullità e annullabilità delle delibere assembleari:

Queste Sezioni Unite ritengono che debbano qualificarsi nulle le delibere prive degli elementi essenziali, le delibere con oggetto impossibile o illecito (contrario all’ordine pubblico, alla morale o al buon costume), le delibere con oggetto che non rientra nella competenza dell’assemblea, le delibere che incidono sui diritti individuali sulle cose o sevizi comuni o sulla proprietà esclusiva di ognuno dei condomini, le delibere comunque invalide in relazione all’oggetto.

Debbano, invece, qualificarsi annullabili le delibere con vizi relativi alla regolare costituzione dell’assemblea, quelle adottate con maggioranza inferiore a quella prescritta dalla legge o dal regolamento condominiale, quelle affette da vizi formali, in violazione di prescrizioni legali, convenzionali, regolamentari, attinenti al procedimento di convocazione o di informazione dell’assemblea, quelle genericamente affette da irregolarità nel procedimento di convocazione, quelle che violano norme che richiedono qualificate maggioranze in relazione all’oggetto.”

Un buon amministratore sa riconoscere una delibera “in odore” di impugnazione ed è suo dovere informare l’assemblea per evitare inutili battaglie legali.

Bilancio di esercizio

Il bilancio di esercizio rappresenta la sintesi di un anno di gestione che non si limita a “rendere il conto” delle spese e degli incassi intercorsi nell’anno, ma deve  mostrare una chiara situazione dello stato patrimoniale del condominio consistente in fondi, debiti e crediti. E’ un documento “delicato” perchè mostra come siano stati spesi i soldi dei condòmini.

L’art. 1130 bis cc specifica, a dir la verità in maniera generale, quali siano i requisiti minimi che deve avere questo documento:

Il rendiconto condominiale contiene le voci di entrata e di uscita ed ogni altro dato inerente alla situazione patrimoniale del condominio, ai fondi disponibili ed alle eventuali riserve, che devono essere espressi in modo da consentire l’immediata
verifica. Si compone di un registro di contabilità, di un riepilogo finanziario, nonché di una nota sintetica esplicativa della gestione con l’indicazione anche dei rapporti in corso e delle questioni pendenti

Saper leggere un bilancio è fondamentale per capire lo stato di forma di un condominio, anche perchè una volta approvato, le eventuali spese indicate e i conguagli richiesti diventano liquidi ed esigibili.

  1. Il rendiconto di cassa parte dal saldo di cassa dell’esercizio precedente (es. 01/01/2017) che DEVE corrispondere al saldo di c/c, riassume le entrate e le uscite reali dell’anno e si chiude con un saldo finale corrispondente sempre al c/c  (es. 31/12/2017) che costituirà il valore iniziale dell’esercizio successivo;
  2. Lo stato patrimoniale che viene evidenziato sempre in “pareggio”, riporta le “partite” ancora aperte, ovvero i debiti e i crediti verso terzi (per semplificare le quote non ancora incassate e le fatture ancora non pagate) e i fondi accantonati (tfr, fondo lavori, ecc).

Un bilancio chiude sempre in pareggio perchè il condominio non ha utili. Ad un totale di spese X corrisponde sempre un corrispondente totale di quote da incassare X … appunto a pareggio.

Un bilancio di esercizio che riporta voci con il segno – (meno) o descrizioni “strampalate” è sempre meritevole di un chiarimento da parte dell’amministratore, che nella “nota sintetica esplicativa” dovrebbe indicare le questioni più importanti che hanno caratterizzato l’anno di gestione.

Amministratore in assemblea

Benchè molti non lo sappiano, l’amministratore di condominio non è investito di alcun potere, salvo quelli a lui attribuiti dall’art. 1130 cc, e che gli derivano dalla posizione di custode delle parti comuni. E’ l’assemblea ad avere il pieno controllo del condominio,  mentre all’amministratore spetta soltanto il compito di eseguire le delibere approvate.

L’amministratore, una volta convocata l’assemblea ai sensi dell’art. 66 dacc, esaurisce il suo compito “istituzionale”. La sua presenza in assemblea è infatti del tutto superflua essendo demandati al Presidente, regolarmente eletto prima della costituzione, tutti gli adempimenti previsti dal codice civile:
1) la verifica che tutti gli aventi diritto siano stati convocati;
2) la verifica della titolarità dei presenti;
3) la verifica delle deleghe;
4) la verifica dei quorum costituivi e deliberativi;
5) la cura dello svolgimento dell’assemblea secondo i punti all’odg;
6) la responsabilità di redigere il verbale insieme al segretario, e di leggerlo al termine dell’assemblea prima di apporvi una firma congiunta, a suggello della fedeltà di quanto riportato.

L’amministratore è invece una presenza costante, ma soltanto perchè la maggioranza delle assemblee riguarda l’approvazione di bilanci, preventivi e consuntivi, su cui l’amministratore deve poter fornire tutti i chiarimenti del caso. Un buon amministratore rimane defilato e interviene solo quando necessario, forte dell’esperienza, della professionalità e della preparazione che tutti gli amministratori 2.0 (quelli cresciuti con la nuova riforma) dovrebbero avere.

Non si tratta di un dettaglio di poco conto, perchè in molte occasione si percepisce il timore reverenziale dei condòmini nei confronti del proprio amministratore, come se fosse una persona intoccabile. Non ci stancheremo mai di dire che il condominio è dei condòmini e che l’amministratore ha il compito di farlo prosperare e di salvaguardare la sicurezza dei condòmini, sotto tutti i punti di vista.

 

Il potere di spesa dell’amministratore

L’amministratore può ordinare lavori senza la preventiva autorizzazione assembleare? Questa è la domanda che sempre più spesso mi viene posta dai condòmini e la mia consueta risposta è: “assolutamente no, a meno che non rivestano carattere d’urgenza” … ma chi è in grado di stabilire l’urgenza? Fino a dove si può spingere l’autonomia decisionale dell’amministratore?

Tra le attribuzioni dell’amministratore (art. 1130 cc) non compare alcuna indicazione in merito. Soltanto il comma 2 dell’art. 1135 cc dispone nel merito:

L’amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che rivestano carattere urgente, ma in questo caso deve riferirne nella prima assemblea.

Non bisogna lasciarsi trarre in inganno. L’urgenza riguarda la necessità di “impedire che da un danno improvviso e imprevisto ne derivi un pericolo per l’incolumità di terzi o l’aggravarsi del danno stesso“. Questo è il limite, a mio giudizio, che un qualsiasi amministratore deve sempre tenere a mente. Per fare qualche esempio potremmo dire che nel caso di improvvisa e copiosa infiltrazione d’acqua da un lastrico solare ai danni dell’unità immobiliare sottostante, l’amministratore deve porre in essere l’attività minima per salvaguardare i maggiori danni, ma non può ordinare il rifacimento della guaina impermeabilizzante senza prima ottenere un consenso assembleare. Analogamente, il distacco di un pezzo di cornicione non giustifica il rifacimento di tutto il cornicione, quanto la messa in sicurezza dell’area sottostante la caduta ed eventualmente la semplice spicconatura degli altri elementi pericolanti.

Non a caso la norma parla di lavori straordinari, cioè interventi che esulano dall’ordinarietà. La manutenzione ordinaria infatti dovrebbe già essere inclusa nell’elenco delle spese preventive approvate dall’assemblea la quale può, a seconda dei casi, autorizzare l’amministratore a mettere mano al portafoglio per interventi di piccola riparazione purchè entro certi limiti di spesa (spese impreviste). Tutto ciò per evitare il ricorso all’assemblea per una decisione di spesa di qualche decina di euro.

Qualsiasi spesa che esula dal bilancio preventivo deve dunque passare dall’approvazione assembleare. Eventuali esborsi non previsti, inseriti a consuntivo, sarebbe opportuno che venissero descritti analiticamente nella nota sintetica allegata al bilancio consuntivo oggetto di approvazione.